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P. TITO M. SARTORI  O.S.M.

 

Venanzio-Antonio  Quadri:

l’umile gioia della perfezione

 

 

I.   la vita

 

1.- La Fanciullezza

 

Abbiamo la fortuna, rara per un Servo di Dio, di poter sentire dalle labbra materne, le vicende inerenti la fanciullezza del figlio. La prima notizia ovviamente concerne la nascita: Antonio Quadri nacque il 16 dicembre 1916 a Vado di Setta (BO) da Giuseppe e da Pia Castelli.

È l’ultimogenito. Prima di lui nacquero Iolanda (1905), Dante (annegato a sei anni nel fiume Setta), Dante (morto durante la guerra in Albania nel 1940), Ernesta (1915). Alla morte di Antonio nel 1937, Iolanda, diplomata maestra, era già sposata e madre di una figlia. Apprendiamo da lei alcune notizie molto interessanti. Anzitutto che la mamma, dotata di una intelligenza notevole,  era abbastanza istruita e molto devota soprattutto della Madonna di Pompei. Educò i figli a riservatezza, compostezza nel parlare. Severa ma nel contempo affettuosa, si dimostrava ferma nel non cedere su quanto riteneva inopportuno.

La casa dove Antonio nacque, si chiamava “Cova Vecchia”, ed era proprietà della famiglia Quadri. Prospiciente all’abitazione scorreva il fiume Setta e questo particolare fa comprendere il motivo della morte del piccolo Dante e spiega altresì la bravura di Antonio sia nel nuotare che nel pescare i pesci con le mani.

La presenza della nonna paterna, Palma Fantini, molto istruita sulle verità religiose e ricca di religiosa pietà, aggiungeva un ulteriore apporto alla già spiccata religiosità di mamma Pia. Se poi a tutto si aggiunge la presenza del fratello della nonna, Don Giuseppe Fantini, che abitava al piano superiore dell’abitazione, si ha un quadro complessivo dell’ambiente in cui l’ultimogenito Antonio venne a trovarsi nel momento in cui aprì gli occhi sulle vicende di questo mondo.

Economicamente la situazione non era da persone agiate; tuttavia, il babbo, di professione sarto, e la mamma, che lo aiutava finanziariamente intrecciando ceste di vimini per una bottega di Bologna, apportavano al bilancio familiare quanto necessario per vivere senza troppi incomodi, addirittura consentendo alla primogenita di poter accedere alle scuole magistrali e di  conseguire il diploma relativo.

Antonio, lui pure intelligente, facile a reagire se provocato, tuttavia molto rispettoso (tra l’altro come ultimogenito in posizione psicologica subalterna ai fratelli), dette fin da ragazzo prova di autorevolezza con i propri coetanei, dimostrandosi praticamente un leader. Tuttavia, sin da bambino, non dava segni di carattere violento e sapeva coordinare le azioni altrui, coinvolgendo i compagni, rendendoli partecipi delle sue iniziative.

Nel 1922, all’età di sei anni, iniziò la frequenza scolastica presso le scuole comunali di Vado di Setta. Le caratteristiche che la maestra della prima classe elementare (1922-1923), Luigia Nanni,  riconobbe presenti in lui, riflettono quelle che saranno anche successivamente le note predominanti del carattere di Tonino: diligenza, mitezza nel comportamento, intelligenza spiccata, indole buona e tranquilla, molta attenzione durante le lezioni.

Quando ricevette la Prima Comunione  e la Cresima, rispettivamente il 23 e 30 maggio 1926, Antonio Quadri aveva nove anni. Tenendo presente l’ambiente familiare sopra descritto, è comprensibile l’entusiasmo con il quale egli vi si preparò. Tra l’altro, lo zio sacerdote gli aveva regalato un piccolo vangelo, che egli era solito leggere con notevole profitto.

Pochi mesi dopo, precisamente verso la metà di settembre (forse il 16), il P. Benedetto M. Marconi, Priore e P. Maestro dei giovani probandi del collegio di Ronzano, condusse i ragazzi a casa di Pietro Gamberini, che era uno di loro. La famiglia di costui era residente nei pressi di Cova Vecchia. I giovanetti rimasero l’intera giornata in detta località, sicché i loro coetanei, tra i quali Antonio Quadri, attratti dalla novità di tale presenza, si unirono a loro, partecipando da vicino alle loro iniziative, compresa la preghiera che nel pomeriggio essi innalzarono nella chiesa di Vado.

Il contatto con questi ragazzi ebbe un impatto incisivo nella mente e nel cuore di Antonio. Una volta ritornati a Ronzano, lasciarono inconsapevolmente una nostalgia strana in lui, al punto che egli chiese alla mamma di entrare pure lui a Ronzano per condividere ideali e vita di quei giovani. Ovviamente la mamma tergiversò. Il ragazzo doveva ancora frequentare la quinta classe elementare e c’era tutto il tempo per verificare se si trattava di una idea peregrina o di una volontà precisa.

 

2.- L’Adolescenza

 

Era proprio una volontà precisa. Lo zio, Don Giuseppe Fantini, non si intromise allora, lo farà più tardi. Il 3 ottobre 1927 mamma Pia accompagnò il figlio Antonio a Ronzano. Rimase impresso nella mente dei ragazzi il vedere questa buona signora giungere lassù con il figlioletto e una grande cesta di vimini, entro la quale aveva raccolto il corredo del giovane. La nota singolare riguardò lo stile di vita di quella settimana: i probandi erano, infatti,  tutti raccolti nel silenzio caratteristico degli Esercizi Spirituali. Non potevano colloquiare con alcuno. Questo particolare parve al P. Benedetto Marconi una difficoltà notevole per un ragazzo che si presentava come postulante, ma la difficoltà si disciolse completamente quando il piccolo Antonio non si mostrò per niente contrariato, anzi sembrò gradire quella atmosfera di silenzio e di religiosità.

A soffrire fu invece mamma Pia, che nel lasciare il ragazzo, non riuscì a trattenere le lacrime e con voce preoccupata per la salute gracile del figlio, disse a P. Benedetto: “Lo affido a Lei…”; ma egli prontamente rispose: “Lo affida alla Madonna”.

Non sappiamo molto su come si siamo svolti i primi due anni di scuola ginnasiale. Il giudizio che ne dette il P. Marconi fu molto positivo al punto che, durante l’estate, non permise che Tonino si recasse a casa dai suoi nel timore che potesse incappare in qualche amicizia scorretta. Preferì portarlo lui stesso a Vado con il calesse nel corso di una sola giornata. Già questa soluzione, pur nella severità della scelta, la dice lunga sulla stima del P. Benedetto nei confronti di una vocazione ritenuta troppo preziosa per esporla a pericoli così gravi.

I rapporti con la famiglia non si limitarono a quella sporadica visita estiva, ma mensilmente Tonino scriveva a mamma e papà, ragguagliandoli sulle vicende della sua vita, dimostrando entusiasmo e contentezza per la scelta compiuta.

Possediamo maggiori precisazioni a partire dal 1929.  In quell’anno giunse a Ronzano, come sottomaestro e come insegnante, il P. Bernardino M. Piccinelli. Nei due anni scolastici – 1929/1931 – egli insegnò a Tonino le seguenti materie: italiano, francese, storia e geografia. Oltre che sottomaestro, il P. Bernardino fu scelto da Tonino anche come Direttore spirituale. Attualmente la causa di beatificazione del P. Piccinelli è presso la Congregazione delle cause dei Santi e questo fa capire quanto preziosa possa essere stata la presenza di lui nei primi anni di postulandato di Antonio Quadri.

P. Bernardino ammise senza alcun dubbio che Tonino fu il migliore alunno di quella classe. Egli altresì ricorda che il card. Alessio M. Lepiciér inviò a Ronzano due medaglie d’oro da conferire ai due migliori alunni. Una di queste fu consegnata ad Antonio Quadri su unanime designazione dei suoi compagni, appositamente interpellati.

Sappiamo che il P. Bernardino M. Piccinelli fu uno stimato organista. Fin dal 1922 egli insegnò canto ai ragazzi di Ronzano. Fu lui ad insegnare i primi rudimenti musicali a Tonino? Non lo sappiamo con certezza, come anche ignoriamo la data d’inizio di tali studi da parte del Quadri. Tuttavia, da quanto risulta acquisito nel successivo trasferimento di Tonino nel settembre 1931 alla Basilica della Ghiara, egli allora era già in possesso dei requisiti necessari per accompagnare sia i canti liturgici, messe comprese, sia i pezzi organistici atti allo scopo. Non è pertanto improbabile che ad insegnare a suonare e ad accompagnare i canti con armonie appropriate, sia stato proprio il P. Bernardino, che, tra l’altro, pare abbia composto dei brani musicali.

A conclusione della permanenza di Antonio Quadri a Ronzano nel settembre 1931, P. Bernardino M. Piccinelli pronunciò  il seguente giudizio: “Ho avuto molti discepoli che si distinsero per bontà e qualità, ma nessuno raggiunse il suo grado di virtù”. Egli non esitò a paragonarlo a Domenico Savio. Si tenga altresì presente che P. Bernardino, all’interno del gruppo dei probandi, costituì alcuni di loro in Associazione, con il compito di essere, nel silenzio e nel nascondimento, coloro che trascinavano gli altri nella via dell’impegno sia scolastico che religioso. Tra di essi era incluso anche il nostro Antonio Quadri.

Nel convento della Basilica della Ghiara, Tonino rimase un biennio. Nel primo anno continuò gli studi, riducendo ad un solo corso lo studio delle materie pertinenti alla  quarta e quinta classe ginnasiale. Come insegnante d’italiano e di latino egli ebbe, nel 1931-32, il P. Amadio M. Brighetti, che copriva anche il ruolo di P. Maestro. La stessa diligenza, attenzione e bravura del Quadri rilevate a Ronzano, si ripeterono alla Ghiara.

 

3.- La Giovinezza

 

Nell’agosto del 1932 ebbe inizio l’anno di noviziato. Nell’assumere l’abito dei Servi di Maria, Tonino assunse il nome di fr. Venanzio. La scelta del nome obbediva a due criteri: uno missionario e l’altro apostolico. L’opzione delle Missioni era l’eco della devozione - sempre nutrita e appresa dal P. Piccinelli - verso gli scritti di S. Teresa di Lisieux, la cui “Storia di un’anima” fu per lui oggetto di continua lettura e di profonda ammirazione, soprattutto per quanto atteneva all’ardore per le Missioni. Quello di essere cacciatore di anime (secondo l’etimologia latina del termine «Venator») obbediva invece alla brama di mettersi a disposizione di tutti coloro che avessero richiesto il dono della infinita misericordia divina.

Durante l’anno di noviziato fr. Venanzio si dedicò, tra l’altro, allo studio della storia e della spiritualità dell’Ordine. In tale settore, fu dato particolare rilievo all’approfondimento del testo costituzionale. L’atmosfera poi che si respirava nel santuario della Vergine, con la ricchezza delle manifestazioni liturgiche e i vari corsi di predicazione, costituì per fr. Venanzio motivo di peculiare gaudio dello spirito. Tuttavia, egli in questo periodo fu oberato da un dubbio: la sua passione per la musica era conciliabile con la consacrazione totale di sé a Dio? Non poteva al contrario costituire un intralcio, comunque un appesantimento sul piano spirituale?

Decise di sottoporre il dubbio al giudizio del Direttore di spirito. Tale responsabilità egli l’aveva allora accollata al P. Amadio M. Tinti, un frate di cinquantun’anni, esperto nelle vie dello spirito. Conosciamo tutti i particolari, perché nel salire le scale per recarsi da detto Padre, incontrò fr. Pietro M. Rizzi, suo compagno di studi e di noviziato, che gli chiese dove andava. Egli, in  un primo momento esitò, poi gli confidò il dubbio surriferito. Dopo non molti minuti, fr. Pietro lo vide riapparire tutto felice, «raggiante di gioia, perché il direttore l’aveva assicurato che avrebbe potuto proseguire» nello studio della musica senza che per tale motivo ne potesse risentirne la sua vocazione e l’impegno nella vita spirituale».

All’avvicinarsi della data della professione temporanea dei voti, fr. Venanzio sentì urgere in cuore un desiderio gestito da tanto tempo. Glielo aveva inculcato la lettura della Storia di un’anima di santa Teresina. Egli la riteneva un modello da seguire. Attratto sì, come detto pocanzi, dalla passione di lei per le Missioni, ma soprattutto affascinato dal voto emesso dalla Santa  carmelitana offertasi vittima dell’amore misericordioso.

Ma poteva emettere simile voto all’insaputa del P. Maestro? Certamente no. Per tale motivo  si recò dal P. Amadio M. Brighetti per sottoporgli il problema. Ne conosciamo tutti i particolari. Dopo aver sentita la sua richiesta, il P Maestro gli fece osservare che «questo voto non consisteva soltanto nella recita di una formula o di una preghiera, ma poteva comportare veri e propri sacrifici, che gli nominai – aggiunse P. Brighetti – come sofferenze non ordinarie, e anche una morte precoce senza neppure raggiungere la meta del sacerdozio, e terminai dicendogli: “Ebbene, fra Venanzio, se Gesù ti prendesse in parola?”. Fra Venanzio guardandomi con tutta serenità mi rispose: “Con l’aiuto di Dio, sono pronto a tutto!”».

Emessi i voti semplici il 29 agosto 1933, fr. Venanzio si trasferì nel convento dei Servi a Bologna per affrontare il biennio filosofico. P. Maestro del Professato era il P. Gesualdo M. Rocca, un religioso di 54 anni, acuta mente speculativa, piuttosto introverso e alieno da gesti plateali. Anche qui ritornano le solite caratteristiche: «Nella scuola fr. Venanzio stava molto attento, scriveva appunti, e ripeteva bene le lezioni quando era interrogato –così il P. Rocca -. Era poi attentissimo alle settimanali conferenze spirituali che il P. Maestro teneva a tutti i Professi riuniti. Si scorgeva chiaramente che le gustava e che voleva trarne vantaggio». Fin qui tutto bene e tutto come finora era stato detto da altri.

Tuttavia ci sono anche altre versioni. Non tutto a Bologna filava per il verso giusto. Posso portare a dimostrazione alcuni episodi.

Inizio con quanto accadde a fr. Pietro M. Rizzi. Egli si ferì gravemente ad un piede e ad assisterlo nella degenza a letto durante la torrida estate del 1935, fu fr. Venanzio, che dovette rimanere tutto il tempo, per più giorni, relegato in una stanza buia, adibita a dispensa, senza luce né aria, attigua alla cella dell’infermo. Lo fece con amore e sacrificio pari alla sua eccelsa carità. Né ci fu alcuno che si offrisse a sostituirlo in tale gesto di bontà.

Ci fu un altro fatto increscioso. Un professo, affetto di gravi disturbi, in luogo delle normali cure igieniche, si serviva di un unguento pestifero e insopportabile. Non fu verso di convincerlo a cambiare sistema. I suoi compagni, viste inutili le insistenze, furono costretti a rivolgersi ai Superiori Maggiori. Lo fecero presentandosi a loro tutti assieme. Fr. Venanzio si rifiutò di partecipare all’iniziativa. Questo la dice lunga sulla sua autonomia di pensiero e sulla carità che intendeva dovesse comunque essere esercitata anche in quel caso.

Chiudo con l’ultimo episodio. P. Tommaso Santi, fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1935. Durante il pranzo della prima messa, l’incarico di rivolgergli un saluto a nome di tutti gli studenti fu affidato a fr. Venanzio.. «Quando sembrò giunto il momento – così racconta lo stesso P. Santi - fr. Venanzio si alzò a leggere, ma il Priore lo rimandò al posto con una frase pesante: “Vai al tuo posto, perché c’è qualcuno più importante di te”». Si trattava della benedizione papale, ma le parole rudi pronunciate dal Priore ferirono tutti. Fr. Venanzio, senza scomporsi, pur rosso in volto, ritornò al suo posto senza manifestare, né in quel momento, né poi, alcun sentimento contro il Superiore.

Mancavano pochi giorni per la partenza di fr. Venanzio da Bologna. Il 3 ottobre 1935 salutò tutti e partì diretto a Roma alla volta del Collegio Internazionale S. Alessio Falconieri.

Fr. Pietro Rizzi non lo accompagnò nella Capitale. Lui stesso non svelò il motivo di questo suo staccarsi dal compagno, che egli aveva seguito ininterrottamente fin dal 1928. Fr. Pietro raggiungerà fr. Venanzio più tardi, nell’estate del 1937. Non è improbabile che motivo di quello stacco possa essere stata la grave ferita al piede detta sopra.

L’ambiente romano era tutt’altra cosa rispetto a quello provinciale finora vissuto dal Quadri. I confratelli romani provenivano da diversi Continenti. La bontà di fr. Venanzio appariva talmente evidente a tutti, che perfino i frati esteri ne cercavano la compagnia, soprattutto perché egli era tanto paziente nell’insegnare loro i primi rudimenti della lingua italiana. E poi c’era una seconda caratteristica, nota a tutti i suoi compagni della Provincia Romagnola: fr. Venanzio durante la ricreazione andava solitamente assieme a quei confratelli che altri sfuggivano, non per cattiveria, ma per i motivi più vari. Non tutti infatti riescono faceti e gioviali. Lui, fr. Venanzio, svolgeva opera di carità avvicinando i meno loquaci, i più pesanti, lieto di recare loro sollievo.

Non è che mancassero le difficoltà. Queste c’erano sempre state. Fr. Venanzio, per la sua bontà e umiltà, per la sua mitezza, perfino per la sua bravura a scuola, diveniva spesso e volentieri oggetto di scherzi talvolta poco simpatici, ma egli, diventava sì rosso, ma non reagiva, al più si allontanava senza nulla dire.

Come sempre, anche al Collegio S. Alessio, venne incaricato della sacrestia come vice-sagrestano. Era quasi scontato che la sua nota pietà eucaristica e mariana, il suo trascorrere spesso dei momenti della giornata in cappella in orazione, inducesse quasi per istinto ad affidargli il compito di curare l’altare e le suppellettili della chiesa.

A tale proposito è bene ricordare un episodio, che oggi non ha più possibilità di riconoscimento, perché l’urna del martire S. Evergete, venerato nella cappella del Collegio, è stata trasferita nella sacrestia del monastero delle Monache Serve di Maria di Via Fanella. Quando fr. Venanzio faceva le pulizie, spesso apriva le tendine e si intratteneva in preghiera davanti al Santo.

«Ricordo ancora – narra fr. Mariano M. Todero – che, terminate le feste natalizie, nel riporre l’immagine del bambino Gesù gli diede un bacio assai forte, tanto che un compagno, osservandolo, senza essere visto, ne fece poi commento un po’ scherzoso, in sua presenza, coi compagni dicendo: “Avete sentito che bacione?”. Fra Venanzio arrossì senza però scomporsi».

Naturalmente, la sua bravura come organista e addirittura la sua qualifica di compositore, lo ponevano in primo piano in tale campo. Non è detto però che tutto si svolgesse senza guai. Ne sappiamo qualcosa dal racconto trasmessoci dallo stesso fr. Mariano M. Todero (egli era stato autista del card. Alessio M. Lepiciér, spentosi a Roma il 26 maggio 1936). Posteriormente a tale data, fr. Mariano rientrò a servizio dell’Ordine nella comunità del Collegio Internazionale. Dopo tale rientro assistette ad un episodio che lo amareggiò. Mentre fr. Venanzio stava provando all’organo,  «si avvicinò – racconta fr. Mariano - un compagno, che voleva suonare lui. Senza dirgli nulla, gli diede uno spintone e si mise al suo posto. Fra Venanzio divenne rosso, fece genuflessione al SS.mo e poi, senza reagire, uscì di chiesa».

Questi particolari vengono narrati, perché tutti concordarono, posteriormente alla morte di fr. Venanzio, nel riconoscere unanimemente la bontà del confratello deceduto a tal punto che potrebbe sembrare la vita di lui, come uno scorrere pacifico e sereno, senza problema alcuno, mentre al contrario i motivi di sofferenza e di umiliazione non furono assenti dalla vita virtuosa del Quadri.

Non mancarono però anche i riconoscimenti, soprattutto provenienti da persone estranee alla vita del Collegio. Mi riferisco al periodo trascorso da fr. Venanzio a Camaldoli durante il periodo estivo degli anni 1936 e 1937. In quell’arco di tempo musicisti famosi, come Lorenzo Perosi, Licinio Refice, Marcello Cagnacci, erano soliti trascorrere lassù momenti di riposo.

In quei due mesi i professi di Roma, ospiti del monastero, alla domenica partecipavano attivamente alla celebrazione solenne della Messa cantata. All’organo sedeva  fr. Venanzio M. Quadri. Anche fr. Pietro Rizzi, l’abbiamo già riferito, raggiunse, nell’estate del 1937, i professi romani a Camaldoli. Egli pertanto fu in grado di raccontare come si svolsero le vicende del Nostro in quel tratto di tempo: «Un giorno [di quell’estate], durante la ri­creazione, Fra Venanzio sedeva all'organo per preparare la Mes­sa «Iucunda» del Vittadini; ed ecco il Perosi raggiungere la can­toria con il preciso desiderio di parlare con il Servo di Maria di cui apprezzava il talento. Quando Fra Venanzio vide il Perosi ac­costarsi all'organo, cessò immediatamente di suonare e, rosso di confusione, scese invitando il maestro a sedersi. Il Perosi fu molto gentile; disse parole di elogio per le suonate e per i canti che egli eseguiva ogni domenica in Chiesa e incoraggiò Fra Venanzio a con­tinuare lo studio della musica, assicurandolo che avrebbe raggiun­to ottimi risultati».

Purtroppo fu quella l’estate ultima di fr. Venanzio. Ritornato a Roma, poté seguire il corso di esercizi Spirituali predicati dal P. Giovanni M. Rossi, allora priore provinciale della Provincia di Romagna, la stessa di fr. Venanzio. Egli era primo cugino, da parte materna, del P. Bernardino M. Piccinelli. Quel corso di Esercizi Spirituali precedeva di pochi giorni l’inizio dell’anno scolastico.

Tutto procedette secondo il solito ritmo. La situazione mutò radicalmente per fr. Venanzio a partire dal mattino del 30 ottobre 1937, quando egli non si presentò alla celebrazione della messa conventuale, ma rimase a letto.

A verificare il motivo della strana assenza di fr.Venanzio andò fr. Pietro M. Rizzi, allora aiutante dell’infermiere, fr. Mariano M. Todero. Apprese così che il confratello non era riuscito a reggersi in piedi. La situazione, con un rialzo termico lieve, perdurò fino alla solennità di Tutti i Santi. Nel pomeriggio di detta solennità, per qualche ora fr. Pietro e fr. Venanzio riandarono, in affabile colloquio, agli anni trascorsi insieme, facendo riemergere scenette varie e la memoria di compagni poi ritornati nelle rispettive famiglie.

Verso l’imbrunire l’infermo confidò all’amico di sentirsi «freddo ai piedi». Quando poco dopo giunse il medico, colloquiando con fr. Venanzio, egli ebbe la percezione che si trattasse di una semplice influenza.

Al momento di andarsene, fr. Pietro gli disse che il malato avvertiva freddo agli arti inferiori. Questo particolare allarmò immediatamente il sanitario, che tornò sui suoi passi e chiese a fr. Venanzio di scendere dal letto e mettersi in piedi; ciò che questi non riuscì a fare. Il medico non disse alcunché, uscì dalla stanza e al P. Maestro che l’accompagnava, rivelò la situazione gravissima nella quale versava l’infermo: restavano poche ore di vita. Unica speranza che la mattina seguente un rialzo termico, spinto fino a 40 gradi, potesse significare una reazione adeguata a tanto male. Al contrario, sarebbe rimasta valida la diagnosi letale. Si trattava infatti di una paralisi progressiva al midollo spi­nale, che piano piano avrebbe raggiunto il cuore e stroncata per sempre quella giovane esistenza.

Fr. Venanzio intuì che c’era qualcosa di grave, ma nulla disse: rimase in silenzio. Gli procurò dolore la notizia che durante la notte non avrebbe potuto osservare il digiuno eucaristico a causa del «salicilato» da assumere ogni due ore. Per tale motivo, al mattino seguente, quando fr. Mariano M. Todero, l’infermiere, ritornò nella camera dopo essersi comunicato, fr. Venanzio lo chiamò a sé con accento di supplica, lo pregò di stare vicino a lui, perché voleva sentire la vicinanza di Gesù, presente nel cuore dell’infermiere.

Poco dopo giunse il medico, che alla notizia della levità della febbre, pregò il P. Maestro di avvertire il giovane della fine imminente. Questo delicato compito fu affidato al P. Luigi Tabanelli, confessore di fr. Venanzio. Dopo di che fu amministrato il S. Viatico, che egli ricevette con trasporto d’amore.

Dovendo gli studenti recarsi alla chiesa di S. Marcello per cantare la messa nella solennità liturgica di Tutti i Defunti, ciascun professo si avvicinò a fr. Venanzio per salutarlo. A ciascuno egli rivolse parole di bontà e di incoraggiamento. Fr. Pietro M. Rizzi fu pregato dal P. Maestro di rimanere accanto a fr. Venanzio e di avvertire qualora si prospettasse un peggioramento. A questo punto lascio la parola al compagno di studi, fr. Pietro M. Rizzi, che accompagnò fino all’ultimo respiro il fraterno amico fr. Venanzio:

 

Mi sento impotente a ripetere con parole mie quello che vidi e udii in quell’ ora.

Rimasti soli nella stanza e credendo io di fare cosa gradita a Fra Venanzio, mi accostai al letto e aprendo l’Imitazione di Cristo gli chiesi se gradiva che gliene leggessi un capitolo. Mi rispose con un cenno del capo e con un dolce sorriso che si spense subito mentre i suoi occhi si abbassavano, era evidente che si stava raccogliendo in una preghiera più intensa. Lessi qualche riga, poi intuii che Fra Venanzio piuttosto che le parole del libro preferiva lasciarsi avvolgere dalla presenza di Dio in quell’ora di sacrificio supremo. Allora chiusi il libro. Mi inginocchiai accanto al letto, e coprendomi il volto con le mani, piansi silenziosamente accanto a colui che stava consumando la sua ultima preghiera. Passarono così alcuni minuti, poi Fra Venanzio mi cercò con il suo sguardo calmo e pieno di pace. Io lo guardavo trepidante e non osavo rompere quel silenzio ricco di preghiera.

 Fu Fra Venanzio che quasi continuando un discorso già cominciato con se stesso, mi disse con una semplicità velata di tristezza: «Prima di morire avrei desiderato vedere la mia mamma; ma quando lei arriverà io non sarò più sulla terra, ma in cielo».

 Non ebbi parole per rispondere; il pianto mi prendeva. Dopo una breve pausa, Fra Venanzio aprì gli occhi e tenendoli fissi nel vuoto, come guardando a qualcosa di infinitamente lontano, riprese con un mesto sorriso: «Avevo desiderato diventare Sacerdote, ma il Signore ora viene a prendermi ed io sono contento di fare la sua volontà».

 Poi si raccolse di nuovo in preghiera e pareva immerso in un profondo sonno di pace. Restammo così a lungo, uniti l’uno all’altro nella preghiera.

 Ad un tratto con mio grande stupore vidi il volto di Fra Venanzio contrarsi come per qualche cosa che lo turbava, una agitazione che lo faceva soffrire. Forse il demonio tentava per l’ultima volta di aggredire quella fortezza inespugnabile.

 Ma questo stato di ansietà durò poco tempo, perché Fra Venanzio mi chiese il quadretto di Santa Teresa del Bambino Gesù che teneva sempre sul tavolo. Presi immediatamente l’immagine della piccola Santa e l’accostai alle sue labbra. Fra Venanzio strinse forte forte l’immagine tra le sue mani e cominciò a coprirla di baci ripetendo come ad una persona viva e presente parole di tenerezza e di fiducia, come un bimbo che parla alla sorella più grande che ama teneramente. Diceva:“Hai uno sguardo che non mi puoi tradire. Mi hai sempre amato e protetto in vita ora aiutami e proteggimi in morte”.

A queste parole ogni turbamento come per incanto sparì e la sua preghiera-conversazione con la sua celeste protettrice continuò serenamente per lungo tempo. Poi mi chiese il Crocifisso che teneva sul tavolo. Vidi allora una cosa che non saprò mai dire.

 Con mano ansiosa e tremante Fra Venanzio afferrò il Crocifisso come se affondasse le mani in una carne viva; lo strinse forte, lo portò alle labbra e in un lungo, interminabile bacio ripeteva all’infinito parole di tenerezza e di amore senza pari:“Ti amo, ti adoro mio dolce tesoro, amore infinito, dolcezza eterna. Io sono il tuo piccolo Venanzio che ti ama e che ora viene a vederti in cielo”.

Queste e simili espressioni non so quanto tempo durarono. Inginocchiato ai piedi del letto lo seguivo attraverso una nebbia di lacrime che non riuscivo a trattenere. So soltanto che ad un certo momento mi parve di vedere che il volto di Fra Venanzio stesse rapidamente mutando. Un pallore nuovo si stava dif­fondendo; gli occhi perdevano lentamente la loro luminosità e le ma­ni lasciarono scivolare il Crocifisso tra le pieghe delle coltri. Compresi che si avvicinava la fine e immediatamente eseguii l’ordine ricevuto dal P. Maestro: qualora l’ammalato si fosse aggravato dove­vo suonare il campanello d’allarme. Accorsero immediatamente, i pochi Padri rimasti in collegio e i fratelli Conversi.

Il P. Paolo Gabrielli nel grande dolore della prossima perdita di quel carissimo figlio, lasciò al M. Rev.do P Ferrini, nostro ca­rissimo Vice-Maestro, il compito di amministrare l’Estrema Unzione.

 Fra Venanzio ne seguì le preghiere e sia pure stentatamente cercò di pronunciare le parole e di rispondere alle preghiere, ma ormai la paralisi era alle porte del cuore. Subito dopo fu letta la formula della Professione solenne [da fr. Pietro M. Rizzi] al termine della quale egli ri­spose con un cenno del capo e un «sì» che si spense come un soffio, sulle labbra che non dovevano muoversi più. Fu questa l’ultima parola che suggellò la sua semplice vita fatta di piccoli, continuati «sì».

Intanto giungevano a gruppi i Professi i quali cercavano di farsi strada per entrare nella piccola cella: volevano assistere alla morte di un amico e di un Santo.

Il P. Ferrini continuava a leggere le Preghiere dell’agonia e quando giunse al termine, anche Fra Venanzio chiudeva il suo ultimo respiro terreno e come un bimbo che la sera si addormenta tra le braccia della mamma, socchiudeva gli occhi, stringeva le mani e piegava il capo sulla destra come per cercare una posizione più riposante.

Finiva così la vita terrena di Fra Venanzio Maria Quadri.

Erano le 11,30 del giorno 2 Novembre 1937.

 

 

 

II.   la FISIONOMIA SPIRITUALE

 

 

1.- Il Principio ispiratore

 

Non possediamo una serie di scritti disposti in una precisa gradualità d’importanza. Molti di essi sono appunti che fr. Venanzio stilò in seguito a delle conferenze udite dai vari PP. Maestri lungo gli anni di formazione o che sintetizzò alla fine delle prediche ascoltate nei corsi di Esercizi Spirituali. Spesso egli alla fine del testo appuntava anche l’anno di riferimento.

Possiamo raccogliere in una visione d’insieme queste varie raccolte? Penso di sì, perché oltre agli scritti ora citati, esiste la sua vita, dettagliatamente descritta sia dai compagni che dagli stessi PP. Maestri. Da tutto questo insieme emerge la figura spirituale del Servo di Dio. Infatti, negli appunti testé citati, egli talvolta ritorna con insistenza su alcuni concetti chiave, ai quali evidentemente ispirò la sua condotta.

Su tutti emerge il principio della volontà di Dio. Principio, questo, ispiratore di tutta la vita morale di fr. Venanzio. A questo principio egli ricondusse la totalità delle sue azioni, facendolo  emergere nei momenti più decisivi della sua vita religiosa e anche professionale, se per professione vogliamo considerare la sua attività di organista e di compositore.

Prima della professione religiosa, a Reggio Emilia, nell’estate del 1933, egli redasse per sé una preghiera, ispirata, pare, agli scritti di s. Teresa di Lisieux, nella quale si esprime così: “Io, o Signore, nel mio dubbio nelle Tue braccia mi metto e nella Tua volontà mi riposo; fa di me quello che Tu vuoi; io sono contento, mi basta solo di avere il Tuo amore”.

Si noti il particolare: «nel mio dubbio». Prima della professione temporanea dei voti il giovane sedicenne nota la possibilità che con il passare degli anni possano sorgere delle difficoltà. Egli ha già deciso il passo da compiere, ma la prudenza gli suggerisce di dubitare di se stesso, forte della consapevolezza che altri prima di lui conobbero cadute e pentimenti. Di qui il tenore della preghiera appena trascritta.

L’altro elemento, a mio avviso importante, è l’inciso finale: «nella Tua volontà mi riposo». Splendida la conclusione: il cuore di Gesù è il riposo di fr. Venanzio. Egli si riposa sul cuore di Cristo come fece il vergine Giovanni nell’ultima Cena del Maestro!

Non è un riposo passivo, ma attivo, proiettato nel futuro: «fa di me quello che Tu vuoi». È un salto nel buio, la consegna di sé, fondato sulla certezza che la volontà del Signore debba essere  la ragione della sua pace e il motivo della sua speranza. Perché? Perché, egli aggiunge, «mi basta solo di avere il tuo amore». Non dice: “mi basta solo amarti”, vale a dire compiere un atto attivo d’amore verso Dio; ma asserisce che gli basta di «avere» l’amore del Signore, ossia di esserne posseduto. Quindi felice, soprattutto, d’essere amato da Lui.

Due anni dopo ritorna sullo stesso argomento. Fr. Venanzio non è più a Reggio Emilia, ma nel convento di Bologna e sta ultimando il secondo anno di filosofia. In quel periodo di tempo, 10 aprile 1935, la situazione all’interno del Professato conobbe talvolta delle difficoltà, come appare da uno scritto del P. Maestro di allora. Che cosa scrive il Quadri? Egli ritorna sul concetto chiave della volontà di Dio: “Ricordare che debbo essere sempre abbandonato in tutto al volere di Dio; per fare del bene infatti, non importa essere bravi: basta essere in quel punto voluto dal Signore e attribuire tutto alla sua gloria.  Dio è geloso della sua gloria, e nega il bene al sapiente sacerdote superbo e lo dà all’umile”.

L’essere bravi - per esempio come lui a scuola – non significa alcunché; è invece importante essere «in quel punto voluto dal Signore»! La coincidenza tra volontà divina e volontà umana nell’attimo dell’azione, rappresenta la perfezione dell’agire e dell’essere, come ben scritto da fr. Venanzio. Da notare il doppio risvolto: uno generale: «essere sempre abbandonato in tutto al volere di Dio»; l’altro particolare: l’attimo dell’azione compiuta nella quale la coincidenza delle due volontà si consuma.

In questa linea rientra la totalità della vita di fr. Venanzio, sia quando era a Ronzano, sia successivamente. Egli fu sempre riconosciuto e additato come il ragazzo, e poi il giovane frate, nel quale tutto appariva perfetto: osservanza della regola e delle Costituzioni, obbedienza totale ai Superiori, diligenza puntigliosa nei compiti a scuola, perfino nel compilare le brutte copie! Giustamente fu detto dai giovani che se si fosse sempre seguito  il criterio di consultare loro nell’attribuire i premi al più meritevole, il premio sarebbe sempre stato assegnato al Quadri!

Finora abbiamo discorso di situazioni normali. L’aspetto più significativo fu raggiunto al momento del trapasso. Quel mattino, 2 novembre 1937, fr. Mariano M. Todero, l’infermiere, lo ricorda così: «Quando ritornai da lui, dopo la S. Messa e la Comunione, mi abbracciò e mi chiese se avessi chiamato Gesù per lui e se avevo pregato. Io gli dissi di sì, egli allora, con uno sguardo, con voce soave e con le lacrime agli occhi mi disse: “Ed io non potrò più fare la  S. Comunione?”. Gli asciugai le lacrime e gli dissi che i superiori avrebbero chiesta la dispensa dal digiuno ed avrebbe così potuto anche lui fare la S. Comunione. Avrebbe commosso qualunque cuore anche più indurito. Poi mi disse che era disposto a fare la santa volontà di Gesù in tutto, e mi chiese di non andare più via per fare il ringraziamento assieme. Mi misi in ginocchio e si pregò assieme, mi sentivo di essere vicino ad un santo. Recitammo la corona, lui mi accompagnava sotto voce, perché faceva molta fatica a respirare. Si arrivò così alle sette, quando gli diedi il salicilato per sudare, come aveva prescritto il medico».

Promettere di essere disposto a compiere sempre la volontà di Dio è un discorso certamente importante; ribadirlo tuttavia quando si sente bussare alla porta la morte propria, è un discorso diverso, drammatico Ebbene, proprio in tale momento emerse decisa la volontà del ventenne fr. Venanzio! Come fu possibile? Quali furono le coordinate spirituali che lo condussero con una tale apparente disinvoltura a compiere, a quell’età, un simile gesto eroico? È questa la domanda che ora affronteremo.

 

2.- Il contatto soprannaturale  

 

Come uno vive, così muore. Fr. Venanzio per tutta la vita nutrì verso il  Sacramento Eucaristico un affetto che divenne, per così dire, soprannaturale passione. Durante l’anno di noviziato – 1932/1933 – quand’era maggiore il tempo da dedicare agli esercizi di pietà, fr. Venanzio, a detta dell’allora P. Maestro, P. Amadio M. Brighetti, era solito visitare, sei sette volte al giorno, il SS. Sacramento nella cappellina del Noviziato: «preferiva in queste visite inginocchiarsi sulla predella dell’altare, rimanendo con gli occhi fissi al tabernacolo. Secondo il tempo disponibile vi rimaneva per un tempo più o meno lungo».

Sempre a detta del surriferito P. Maestro, quando fr. Venanzio si accostava alla S. Comunione nel santuario della Ghiara, annesso al Noviziato, rimaneva «assorto nel suo ringraziamento, senza interessarsi di nulla di quanto accadeva intorno a lui». Queste precisazioni, pur essendo importanti, sono marginali. Descrivono l’esterno del comportamento, ma non penetrano nella profondità dell’anima dell’interessato. Lì invece si arriva soltanto ascoltando fr. Venanzio. Qualcosa l’abbiamo già intuito dal racconto della sua dipartita.

 Ne sapremo di più leggendo la preghiera che egli teneva sul genuflessorio della camera e che recitò quotidianamente fino all’ultimo giorno della vita: “O Spirito Santo, anima dell’anima mia, io Ti adoro. Illuminami, guidami, fortificami, consolami, insegnami ciò che devo fare: dammi i Tuoi ordini; ed io Ti prometto di sottomettermi a tutto ciò che desideri da me e di accettare tutto ciò che permetterai mi accada. Fammi solo conoscere la Tua volontà”.

Sulla scia di questi pensieri che pare egli abbia iniziato a coltivare fin dagli anni vissuti a Bologna - 1933/1935 -, si deve leggere quest’altra serie di considerazioni vergate nell’ottobre 1937 a pochi giorni dalla morte, durante il corso di Esercizi Spirituali tenuti dal P. Giovanni M. Rossi: «Conoscere, amare e servire Iddio per goderlo poi in Paradiso». “Tutto il resto è accessorio, vanità, se non lo vuole Iddio: Lui il centro di ogni mio pensiero, desiderio, azione. Cercare solo il necessario; non sciupare il tempo nel contingente, che nasce e muore e dispare nel tempo”.

Da un lato, lo Spirito Santo guida; dall’altro, il Signore al centro non dei pensieri, ma «di ogni mio pensiero, desiderio, azione». A corollario, la vacuità del temporaneo, la nullità dell’essere delle cose terrene. Non si può entrare nella mente e nel cuore di fr. Venanzio senza fare i conti con la centralità di questi principi che furono alla base di tutta la sua vita spirituale.

Quale la conseguenza? La conseguenza la leggiamo nella doppia personalità del Quadri. Quella umana, puntuale, precisa, diligente, impegnata, appare come l’ombra di una realtà maggiore che sta dietro l’angolo e che ne illumina la vita intima. Infatti, la personalità soprannaturale tutto sovrasta, e mira direttamente al contatto con Dio, all’unione intima con il Signore per essere un tutt’uno con la Divinità.

 Non è deduzione mia, ma l’espressione diretta del pensiero di fr. Venanzio, così come egli la scrisse a Reggio Emilia nel 1933: «Dio è infinito spirito: io sono immerso in Lui, mi muovo in Lui, vivo in Lui. Niente è più unito a me, che Dio, neppure l’anima, perché può distrarsi da me e si dividerà con la morte: Dio penetra in me in tutti gli elementi del mio corpo, in tutte le potenze del mio spirito».

Da questo contatto soprannaturale discendono tutte le attività soprannaturali e umane di fr. Venanzio. Questa compenetrazione tra il finito dell’uomo e l’infinito di Dio spiega il motivo per il quale la improvvisa tragedia della polineurite che piomba a stroncargli la vita, lo trova sereno, non ne provoca alcun movimento di disperazione. Egli accetta la volontà divina abbandonandosi ad essa  come un bimbo si abbandona tra le braccia paterne, fiducioso che nulla di male gli accadrà. Questo davvero è un aspetto che lascia al contempo stupefatti e anche non del tutto meravigliati, perché il dramma appare la conclusione naturale di tutta una vita di fede vissuta ardentemente. Ne sono prova gli alti ideali fino ad allora perseguiti da fr. Venanzio: l’ideale missionario e quello di vittima della divina misericordia.

 

3.- L’orizzonte del futuro

 

Finora abbiamo considerato l’immediatezza del presente. Non si poteva fare altrimenti. Tuttavia, nel patrimonio interiore di fr.Venanzio erano custodite due prospettive che egli più volte mise in luce come ideali da perseguire: partire per le missioni e donarsi come vittima dell’amore misericordioso. Sappiamo che tali prospettive egli le aveva attinte direttamente dal modello che P. Bernardino M. Piccinelli gli aveva prospettato quand’era a Ronzano: santa Teresa di Lisieux.

La prospettiva missionaria trovava alimento nelle Missioni in Amazzonia affidate alla Provincia Romagnola e nella corrispondenza familiare del P. Piccinelli, il cui zio materno, P. Anselmo M. Marsigli, operava allora come missionario in Swaziland (Africa del Sud). Il messaggio missionario di Santa Teresa  ebbe facile presa nel cuore di fr. Venanzio, al punto che egli - dietro invito del P. Maestro – scrisse un romanzo pubblicato a puntate su “Missioni dei Servi di Maria”, intitolato «Tobink – il piccolo fanciullo negro».

L’ideale di vittima dell’Amore misericordioso apriva prospettive ancora più vaste. In esso convergevano due elementi importanti, che fr. Venanzio coltivò con cura lungo l’arco della sua formazione religiosa: essere partecipe della Passione di Gesù e della Vergine Madre; divenire martire. Egli scorgeva nel dolore redentivo di cui l’Addolorata era socia, la pesantezza del patire divino per i peccati dell’umanità. Nella realtà di tali colpe egli leggeva anche il peccato suo e la conseguente necessità di concorrere, offrendosi a sua volta vittima, secondo il principio di Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che soffro per voi e do compimento a ciò che, nei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24).

In uno scritto del 5 marzo 1937, otto mesi prima di spegnersi,  egli così annota: “A che il soffrire? Esso serve per dimostrare la sincerità degli atti di protesta d’amore. […] Infatti, quando vediamo soffrire qualcuno, sentiamo quanto mai i vincoli d’amore che ci uniscono a lui: lo consoliamo, gli diamo tutto il nostro cuore. E allora, come non piangere dinanzi al Crocefisso? […] Che cosa posso negargli dopo che mi sono offerto interamente a Lui coi santi voti, come vittima?”.

La dimostrazione più luminosa della sincerità di tali sentimenti l’abbiamo già udita nel racconto della morte di fr. Venanzio, quando egli strinse tra le sue mani il Crocefisso, quasi affondadole nelle carni divine, tanto urgeva la pressione dell’amore nell’anima sua all’avvicinarsi dell’incontro definitivo con Lui. D’altra parte, quasi profeticamente, egli, ancora mesi prima, aveva scritto come avrebbe dovuto soffrire per il Signore: “Sapere allora soffrire sarà la prova del mio amore per il  Signore, sarà la vera associazione a Gesù per la salvezza delle anime, sarà il mezzo più efficace per la mia santificazione. Nei dolori intimi versare le mie lacrime sul Cuore di Gesù Crocifisso, e non cercare sollievo dalle creature”.

Il Signore lo prenderà in parola e gli negherà, nel momento estremo della vita, perfino il conforto del volto e delle lacrime della propria madre!

 

4.- L’azione come strumento

 

La ricchezza di questa realtà interiore, così minutamente descritta, come si profondeva all’esterno, come dal suo spirito fr. Venanzio la travasava nelle minuzie delle cose quotidiane? è una domanda che richiede una precisa risposta.

Tutti, PP. Maestri e compagni di studio, riconobbero nella vita di fr. Venanzio l’assoluta perfezione. Ne possediamo traccia nei suoi scritti? Sì, ne troviamo traccia in diversi passi, nei quali egli delinea i singoli momenti della giornata e li inquadra in una serie piuttosto minuta di atti. Non ritengo che egli possa essere riuscito ad osservare una simile congerie di prescrizioni minute. Mi sembra maggiormente possibile ciò che egli vergò durante gli Esercizi Spirituali del 1936-37: «Essere gentile, ma non oltrepassare i limiti; avere anche un contegno serio e dignitoso. Non mostrarmi moderno, né con i confratelli né con i secolari, perché se approvano sul momento, non però dopo. […]. Non essere tifoso: evitare quindi l’immoderazione nel giuoco, le notizie sul medesimo. Evitare le scurrilità, le frivolezze nelle ricreazioni: ogni parola sia pesata, e non sia pronunziata nessuna senza un buon fine. Parlare specialmente di cose di scuola. Nella corrispondenza evitare di sparlare. Nelle visite, sbrigarsi educatamente. Così mi vuol Gesù e per riuscire in questo, far in quest’anno la lettura del ‘Piccolo Galateo’». In tale testo si nota un dosaggio di posizioni calibrato nelle quali diviene regola evitare l’eccesso.

Tuttavia, anche nelle ultime disposizioni, il rapporto non è tra l’azione e l’agente, ma soprattutto tra l’agente e gli altri. È più sul piano della correlazione, che su quello del riflesso dell’interiorità personale.

Quando nell’ottobre del 1935 egli giunse a Roma, ebbe l’opportunità di partecipare agli Esercizi Spirituali che precedettero l’inizio dell’anno scolastico. In quella occasione, scrisse: «Si prega studiando, stando a scuola, stando uniti a Gesù e a Maria. Oh, siano i frequenti gli abbracci con Dio! Che è questo abbraccio di spirito? L’unione forte tra l’estrema miseria e la sconfinata ricchezza prodiga! E se a chi prega, specialmente per lo spirito, tutto vien concesso purché ci sia fede viva, perché non farlo? Quanti bisogni di spirito ho io mai, quanti il prossimo! E perché allora non pregare invece di guardare sfiduciato e spaventato? Pregare quindi con fede e confidenza,  con costanza, nei frattempi».

Il principio di fondo è nell’investire di fede soprannaturale la singola azione, che così diviene preghiera, ossia diretto contatto con Dio. Egli addirittura si profonde in considerazioni che non erano generalmente presenti nei suoi scritti, come, per esempio, quando si sofferma sugli «abbracci con Dio». Nell’adolescenza non era in lui abituale esprimersi con termini così spiccatamente sentimentali.

Si noti l’accento posto sui «bisogni di spirito». E non si tratta soltanto dei bisogni propri, ma anche di quelli del prossimo. Lo sguardo è a 360 gradi. Che cosa egli vede? Scorge un panorama di tristezza morale! Non lo specifica dettagliatamente, ma lo fa intendere con due aggettivi che riflettono quel panorama: egli si sente «spaventato e sfiduciato». È uno sguardo sulla Chiesa, sull’Ordine, sulla Città di Roma, sui movimenti politici, sulle prospettive derivanti dall’assetto europeo o mondiale di allora? Non è detto.

Il ricorso è all’orazione, nella quale l’estrema miseria nostra si unisce all’estrema ricchezza divina. Nell’incontro tra le due realtà, può geminare la vita, frutto di fede viva e operante. Questo ottimismo in fr. Venanzio appare ben posto, perché egli lo fonda su «Gesù e Maria».

Nell’ottobre 1936, un anno prima di morire, fr. Venanzio scrisse parole che in certo qual modo tratteggiavano la sua vita di Servo della divina Madre: “All’Annunciazione era già piena di grazia e degna della dignità di Madre di Dio. Poi venne il Calvario, ove il dolore le accrebbe  a dismisura il suo amore, poi nella sua vita, direi quasi apostolica, quell’amore raggiunse il colmo e passò al Cielo, vittima d’amore”.

In filigrana leggiamo l’arco esistenziale di fr. Venanzio: angelo di purezza, cercò la perfezione assoluta nelle piccole evenienze quotidiane, raccolse la pienezza del suo amore a Dio e ai fratelli nel voto di vittima abbracciato alla vigilia della professione dei voti, e lo consumò, in un umile sì, pronunciato come soffio ultimo prima di spalancare cuore e spirito sull’orizzonte eterno della Vita.

 

 

 

SULLA  VIA  DELLA  BEATIFICAZIONE 

 

 

La fama di santità di fr. Venanzio M. Quadri ebbe eco unanime in tutto l’Ordine dei Servi di Maria all’indomani del suo decesso. Passarono tuttavia parecchi anni prima che si addivenisse all’apertura dell’Inchiesta Diocesana, soprattutto a causa della vicinanza della morte di lui (2 novembre 1937) con lo scoppio del secondo conflitto mondiale (1° settembre 1939).

Ottenuta la dispensa dalla competentia fori, resa necessaria perché il Quadri era deceduto a Roma, detta Inchiesta venne iniziata dal Tribunale Ecclesiastico di Bologna il 16 novembre 1957, dopo oltre vent’anni dalla morte.

Nel frattempo, le spoglie di fr. Venanzio M. Quadri, sepolte nel cimitero del Verano, furono esumate il 20 maggio 1954 e traslate nella Chiesa di S. Marcello, a Roma.

L’Inchiesta Diocesana si concluse il 6 febbraio 1967. Nella stessa data, la salma del Servo di Dio, traslata dalla chiesa romana di S. Marcello alla chiesa di S. Maria dei Servi a Bologna, vi fu ivi inumata.

La Positio super Causae Introductione porta la data del 15 settembre 1971. Successivamente alle normative emanate dalla S. Sede nel 1983, si dovette procedere ad un’ulteriore ricerca documentaria. Il Decreto sulla validità del processo celebrato a Bologna, venne emanato dalla Congregazione delle Cause dei Santi il 27 settembre 1996.

Consegnata la Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis in quello stesso anno, siamo ora in attesa che venga discussa dai competenti organi del Dicastero romano.

 

 

PREGHIERA

 

O Gesù, cui l’angelico Fra Venanzio Maria volle «offrirsi vittima d’amore», glorificate in terra questo vostro fedele servo, come lo crediamo beato in cielo, concedendoci la grazia che domandiamo…  E voi, Vergine Santa, per la tenerezza materna che dimostraste a quest’anima umile e piccola, che vi servì perfettamente, vogliate affrettare, con la vostra intercessione, la glorificazione di lui sulla terra e ottenerci altresì  le grazie necessarie per la salvezza eterna.  Amen.

 

                                                                           Pater, Ave, Gloria